Buongiorno a tutti gli appassionati di vino, fedeli lettori di VinoDegustando!
Benvenuti tra le radici del tempo: oggi iniziamo un viaggio dedicato alla riscoperta dei vitigni antichi, varietà ormai scomparse o quasi, che un tempo popolavano il panorama italiano e internazionale. Nelle prossime settimane esploreremo le uve più rappresentative di diverse regioni italiane, per poi proseguire con quelle estere.
Nel vasto mosaico della viticoltura mondiale esiste un patrimonio silenzioso, fatto di uve che un tempo erano diffuse e oggi sopravvivono solo in pochi ceppi custoditi da ricercatori e appassionati. Parlare di vitigni perduti significa raccontare la memoria agricola del Paese, la biodiversità che rischiamo di perdere e il valore culturale che ancora oggi possiamo recuperare.
In un’epoca in cui il vino cerca autenticità, identità e sostenibilità, riscoprire queste varietà non è un gesto nostalgico: è una scelta strategica che guarda al futuro.
Cosa sono i vitigni perduti
Con “vitigni perduti” si indicano quelle uve non più coltivate o presenti in quantità così ridotte da non avere alcun ruolo produttivo. Molte sopravvivono solo in collezioni ampelografiche, in vecchi filari dimenticati o nei registri storici delle campagne italiane. Sono testimoni di un passato agricolo ricco, fatto di selezioni naturali, adattamenti locali e scelte contadine tramandate per generazioni.
Perché sono scomparsi
La scomparsa dei vitigni perduti non è mai casuale. Le cause principali sono:
La fillossera, che tra fine Ottocento e inizio Novecento ha cancellato interi patrimoni genetici. Molte uve non sono mai state reinnestate.
La bassa produttività, che ha portato all’abbandono delle varietà meno redditizie.
La standardizzazione del mercato, con l’avvento dei vitigni internazionali e la ricerca di produzioni più omogenee.
L’abbandono delle campagne, che ha disperso la memoria viticola di molte zone rurali.
La scarsa adattabilità ai nuovi sistemi di allevamento, che ha favorito la sostituzione di varietà locali con altre più moderne.
Vitigni perduti italiani: esempi emblematici
L’Italia custodisce una lunga lista di vitigni scomparsi o quasi estinti. Tra questi ci sono:
Raverusto (Trentino) – Citato nel Settecento, oggi sopravvive solo in collezioni sperimentali.
Uva della Madonna (Emilia‑Romagna) – Un tempo diffusa nei colli bolognesi, oggi quasi estinta.
Cornacchia (Marche) – Vitigno ottocentesco scomparso con la fillossera.
Uva Ruggine (Toscana) – Sparita tra fine Ottocento e inizio Novecento.
Bianchetta genovese antica (Liguria) – Da non confondere con la Bianchetta di oggi: questa variante storica è ormai perduta.
Vitigni perduti nel mondo
La perdita di biodiversità non riguarda solo l’Italia. Anche altri Paesi hanno visto scomparire o quasi, varietà storiche come:
Gouais Noir chiamato anche Gouget Noir (Francia) – Parente del Gouais Blanc, oggi estinto.
Mornen Noir (Francia) – Antico vitigno del Rodano, scomparso dopo la fillossera.
Alvarelhão Branco (Portogallo) – Variante bianca di un vitigno rosso ancora esistente.
Vitigni “resuscitati”: quando la biodiversità rinasce
Non tutti i vitigni abbandonati sono però destinati all’oblio. Alcuni sono stati recuperati grazie alla ricerca e alla passione di vignaioli lungimiranti. Tra i casi più noti:
Timorasso – Piemonte
Schioppettino – Friuli‑Venezia Giulia
Perricone – Sicilia
Nascetta – Piemonte
Recantina – Veneto
Cesanese – Lazio
Questi esempi dimostrano che la biodiversità può tornare a vivere quando territorio, ricerca e comunicazione lavorano insieme.
Riscoprire queste varietà significa:
valorizzare l’identità territoriale
arricchire la biodiversità genetica
offrire nuove opportunità enologiche
raccontare storie che il pubblico ama
proteggere un patrimonio culturale unico
In un mercato sempre più attento all’unicità, i vitigni perduti possono diventare un elemento distintivo per produttori, territori e comunicatori del vino.
Buone degustazioni a tutti!
D.B.

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